Il diritto di contare: tre donne e la loro corsa allo spazio

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Marzo è il mese dedicato alla figura della donna. La rubrica culturale di Pass vuole celebrare donne forti che con le loro azioni sono riuscite a farsi valere. Il film “Il diritto di contare” del 2016, tratto dal libro omonimo di Margot Lee Shetterly, è ispirato a fatti realmente accaduti. Racconta la storia di tre donne nere che lavoravano per la NASA nei primi anni ’60 e che dovevano fare i conti con una doppia discriminazione.

Stati Uniti, 1961: la corsa allo spazio è iniziata ufficialmente. I Russi hanno compiuto l’impresa di mandare in orbita il primo uomo, l’astronauta Jurij Gagarin. Al Langley Research Center in Virginia, il primo centro della NASA, la notizia è arrivata come un fulmine a ciel sereno e ora più che mai riuscire a lanciare una capsula pilotata da John Glenn diventa una questione di principio. 

Mentre il mondo sta con il naso puntato all’insù, alla West Area Computers c’è un gruppo di donne afroamericane che si occupa di fare i calcoli per il prossimo lancio. Dorothy Vaughan è il supervisore non ufficiale del gruppo, ma il suo stipendio è rimasto sempre lo stesso anche se ora riveste un ruolo più importante. Inizialmente nel suo team ci sono anche Catherine Johnson e Mary Jackson che, a causa delle forti pressioni governative per la riuscita della missione, vengono provvisoriamente trasferite ad altri dipartimenti. Catherine Johnson è una brillante matematica che viene ammessa allo Space Task Group per assistere il gruppo che si occupa di progettare il viaggio di John Glenn. Nel team c’è un’altra donna, ma Catherine capisce fin da subito che non potrà nemmeno contare sulla solidarietà femminile: è l’unica persona nera e con la collega non può condividere nemmeno il bagno. L’unico bagno per le donne nere si trova infatti alla West Area Computers e Catherine deve camminare quasi un chilometro per raggiungerlo. Mary Jackson viene invece assegnata al gruppo di ingegneri che si occupa di costruire il mezzo che porterà Glenn in orbita. Un collega la incoraggia a proseguire gli studi per ottenere un titolo che le permetta di lavorare come ingegnere nel suo nuovo dipartimento, ma per farlo deve frequentare una scuola di soli uomini bianchi, a cui può accedere solo con il permesso di un giudice.

Una scena tratta dal film “Il diritto di contare”.

Gli anni Sessanta in America non sono solo quelli dei razzi e la competizione con la Russia: sono anche quelli delle proteste contro la segregazione razziale. Sono gli anni in cui la donna degli anni Cinquanta vista come angelo del focolare diventa obsoleta e inizia a cedere il posto alla donna emancipata. È il decennio delle dicotomie: comunismo-capitalismo, uomo-donna, bianco-nero. E poi ci sono loro: le donne nere, che si trovano a dover combattere quotidianamente su più fronti.

Il diritto di contare ci ricorda l’importanza dell’accessibilità alla cultura e all’istruzione. Per Mary questo si traduce nella possibilità di frequentare una scuola di specializzazione, per Dorothy significa poter prendere in prestito da una biblioteca per bianchi un libro che non si trova in nessuna biblioteca per neri: un libro di programmazione. Dorothy capisce infatti che quando la NASA inizierà ad utilizzare il computer IBM 7090, tutte le matematiche della West Area Computers verranno licenziate. I loro posti vengono salvati dalla lungimiranza di Dorothy, che impara a programmare il nuovo computer prima degli altri tecnici e insegna il linguaggio alle ragazze del suo dipartimento, in modo che la NASA non possa fare a meno di loro.

La storia di Catherine mette in evidenza la necessità di garantire pari opportunità, evidenziando la fatica che comporta raggiungere lo stesso livello degli altri sul posto di lavoro quando si è costretti a fare i conti con ostacoli aggiuntivi legati agli stereotipi di genere e al colore della pelle. Catherine si trova infatti a dover perdere quaranta minuti di lavoro al giorno per raggiungere il bagno delle donne nere, non si può permettere il filo di perle previsto dal dress code perché percepisce uno stipendio inferiore a quello delle colleghe bianche e, come se il suo lavoro non fosse già sufficientemente complicato, i colleghi le passano i documenti con i dati incompleti. Quando inizia a frequentare un uomo con cui almeno condivide il colore della pelle, viene trattata con sufficienza perché lui non ritiene che le donne siano adatte a lavorare in ambito scientifico.

L’incredibile forza di Catherine, Dorothy e Mary sta nel riuscire a dimostrare quanto valessero nonostante le avversità, riuscendo a poco a poco a modificare l’ambiente in cui lavorano. Catherine riesce a farsi apprezzare dal suo superiore e, dopo essere stata licenziata, perché il suo lavoro veniva ormai svolto dal nuovo computer, viene chiamata nuovamente per verificare la veridicità di quanto calcolato dell’IBM 7090. Catherine dimostra in questo modo l’insostituibilità dell’essere umano, il quale possiede un senso critico che una macchina non può (ancora) sviluppare. Dorothy ottiene finalmente la promozione che meritava e salva il posto di lavoro delle colleghe. Mary riesce a convincere il giudice a permetterle di frequentare la scuola, diventando così la prima donna nera a lavorare come ingegnere alla NASA. È anche grazie all’insostituibile lavoro di queste tre scienziate che John Glenn è riuscito a realizzare l’ambizioso progetto del governo statunitense. Celebrando la loro eccezionalità, però, non dobbiamo lasciarci distrarre dal vero obiettivo della narrazione delle loro storie: creare un mondo in cui non sia necessario essere eccezionali per svolgere un lavoro allo stesso livello di chi è nato con maggiori privilegi.

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