Quanto costa essere donna? Ce lo spiega Jennifer Guerra

Quanto costa essere donna? Ce lo spiega Jennifer Guerra
Quanto costa essere donna? Ce lo spiega Jennifer Guerra
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Si è concluso giovedì 24 marzo il ciclo d’incontri organizzato da Udu Verona “Donne sì, ma a che prezzo?”. Sono stati analizzati i risvolti economici dell’essere donna, che si sperimentano ogni giorno.

Si è concluso il 24 marzo il ciclo di incontri “Donne sì, ma a che prezzo?” organizzato da Udu Verona in occasione del mese della donna. A condurlo è stata Jennifer Guerra: giornalista e scrittrice specializzata in questioni di genere e femminismo.

Durante la presentazione sono state analizzate tutte le fasi della vita di una donna dal punto di vista economico, perché, come afferma la giornalista, «la questione economica e femminista sono intrecciate da sempre».

Guerra parte da una premessa: alla nascita ci viene assegnato un sesso in modo arbitrario sulla base dei nostri genitali. La conseguenza più grave è che le nostre vite dipenderanno da questa scelta, perchè determinano le aspettative che la società avrà verso di noi, ma soprattutto le nostre.

Pink tax

La discriminazione economica inizia già durante l’infanzia. Ci si scontra difatti con la pink tax: una tassa che comporta un costo dal 2 fino al 15% in più per gli articoli destinati al genere femminile. Può essere applicata ad ogni oggetto, dai giocattoli fino ai prodotti per l’igiene personale, il cui gap può raggiungere persino il 50%.

Le mestruazioni e povertà mestruale

Secondo l’Huffington Post, si è stimato che il costo delle mestruazioni durante tutta la vita di una donna sia 16mila euro. Non sorprende considerando che gli assorbenti fino a poco tempo fa erano classificati come beni di lusso con una tassa IVA del 22%. Per fortuna la legge di bilancio del 2022 è riuscita ad abbassarli a un’iva del 10%, cioè pari a quella delle protesi. Come se una persona potesse scegliere di non avere le mestruazioni o una gamba.

Jennifer Guerra spiega il prezzo dell’essere donna

In risposta a questa problematica ha molto colpito la scelta di svariati paesi di abolire la tampon tax. Fra di essi ricordiamo India e Canada, ma anche alcuni Paesi dell’Africa, come Nigeria, Tanzania e Libano, come riporta ActionAid. Guerra ha naturalmente elogiato la scelta, fatta con l’intento di combattere la povertà mestruale, ma ha anche sottolineato come le modalità possano essere discutibili. Innanzitutto gli assorbenti non sono l’unico supporto igienico utilizzato e poi sarebbe utile indagare sull’effettiva qualità dei prodotti distribuiti.

Ma che cos’è la povertà mestruale? Attualmente è la condizione in cui 1,8 miliardi di persone non riescono a “gestire in maniera dignitosa e salubre le mestruazioni”. Una situazione che causa maggiore ansia, depressione e difficoltà a concentrarsi a scuola. Quest’ultima è proprio una delle principali conseguenze: le svantaggiate condizioni di igiene non permettono alle ragazze di frequentare le aule, senza contare poi i danni alla salute.

Le prime esperienze sessuali e i consultori

La situazione si complica ancora di più quando si scopre il sesso. La scuola italiana non è obbligata a fornire un’educazione sessuale e le pillole comportano una spesa tra i 100 e 200 euro l’anno. La situazione è nettamente migliore nelle regioni Toscana, Puglia, Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia e Marche, dove gli anticoncezionali sono gratis fino ai 25 anni, come ben ricorda Fanpage.it. Nonostante sia un’opportunità da non lasciarsi scappare, non sempre è facile usufruirne: la legge prevede un consultorio ogni 20mila abitanti, ma oggi ne esistono solo 1800 in tutta Italia. Ciò comporta che in alcune zone della Penisola sia presente solo un consultorio ogni 70mila persone e soprattutto a una distanza non raggiungibile da tutte facilmente.

I costi aumentano nel caso di diagnosi da endometriosi, vulvodinia, fibromialgia e neuropatia del pudendo. Possono essere difatti fino a 9.579 euro per la endometriosi e dai 2mila ai 9mila euro per la vulvodinia, come ricordano le associazioni AIE e VIVA.

Lavoro e carriera

Nonostante il 60% delle donne laureate abbia un voto d’uscita più alto di quello dei colleghi maschi il gender pay gap non risparmia nessuno, anzi sembra proprio prendersela con loro. Secondo le fonti Eurostat, Ilo e WEF, una dipendente senza laurea guadagnerà dal 4,7% al 8,4% in meno rispetto a un collega uomo, mentre se la dipendente in questione è laureata la differenza può raggiungere anche il 30%!

Le spiegazioni sono molteplici e dipendono soprattutto dalla situazione economica della nostra Penisola. Il primo fattore influente è la situazione di precariato nel lavoro: i contratti sono talmente brevi, fino a 4 mesi, da livellare le differenze. Mentre nel caso di un laureato o di una laureata si presuppone che ricopra un incarico a lungo termine che potrebbe includere periodi come la maternità e il congedo parentale. Inoltre, nel mondo del lavoro italiano è ancora molto presente la segregazione lavorativa: cioè le donne continuano a preferire lavori legati all’ambito della cura e dei saperi umanistici mentre gli uomini prediligono gli ambiti scientifici e tecnologici. Senza contare poi la sottovalutazione dei lavori in campo umanistico dalla quale conseguono stipendi inferiori.

Secondo le fonti Ipsos, la carriera di una donna, inoltre, rischia di avere un grave arresto con un figlio. Difatti l’11% delle donne lascia il lavoro dopo il primo figlio, il 17% dopo il secondo e il 19% al terzo. Nel caso in cui non si decida di lasciare il posto si potrebbe incorrere in una diminuzione dello stipendio, come sottolinea l’INPS. Aumenterà del 6% in meno rispetto a quello di una donna senza figli e sul lungo periodo lo stipendio sarà del 52% in meno rispetto a quello prima di avere un figlio.

Gli studenti presenti all’incontro

Pensione

Secondo la Commissione Europea, da donne si ha il privilegio di andare in pensione prima ma la retta che si riscuote ogni mese sarà del 38,5% inferiore a quella di un uomo. Questi dati sono anche il risultato di una cultura dove per la donna abbandonare il lavoro già dopo il primo figlio era una cosa normale, così comportando un curriculum dalla carriera frammentata con minori contributi.

Violenza e reddito

Un tratto caratteristico di molte vittime di violenza è che per il 32,9% ha un reddito zero, mentre meno del 40% può contare su un reddito sicuro, secondo quanto riportato dalla rete DiRe. Così la violenza si intreccia anche con gli aspetti economici, che nel 82,5% dei casi sono il primo ostacolo alla fuoriuscita dalla violenza, come ben ricorda WeGO.

Più nello specifico la violenza economica implica per il 23% delle donne coinvolte non avere accesso al reddito famigliare, per il 19% non poter utilizzare i soldi liberamente, per il 18% avere le spese controllate dal partner, mentre l’11% non conosce nemmeno l’entità del reddito famigliare e sempre a un’11% non è permesso lavorare.

Conclusioni

Jennifer Guerra ha concluso l’incontro con una frase di Virginia Woolf tratta da Una stanza tutta per sè:

Una donna deve avere soldi e una stanza suoi propri se vuole scrivere romanzi

rimarcando quanto sia importante per una donna l’indipendenza economica per coltivare i propri sogni e fare quello che desidera. Il tutto in un mondo che non dovrebbe porre le donne in una condizione svantaggiata solo perché un medico gli ha assegnato il sesso femminile il giorno in cui sono nate.

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