Perché volete vivere a Pleasantville?

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                                                                                          (clikka per il pdf del numero di ottobre di Pass)

‘’Dove potrò mai vedere colori del genere? E’ un grande privilegio per loro vedere certi colori, si renderanno conto della fortuna che hanno?’’
Siamo verso la fine degli anni ’90, e David e sua sorella Jennifer vivono con la madre divorziata in una situazione familiare non propriamente rosea.
Una sera i due, rompendo il telecomando durante una contesa, vengono soccorsi da un misterioso riparatore a domicilio. L’uomo, con la scusa di fornirgliene un modello speciale, li catapulta dentro Pleasantville, serie tv anni ’50 in bianco e nero, mondo perfetto che incarna senza sbavature il sogno americano. Come sostituti dei fratelli Bud e Mary Sue Parker allora si ritrovano intrappolati in un luogo anacronistico, schematico, e privo di colori.
 
E’ proprio partendo dall’assenza di colori, in contrasto coi minuti iniziali della pellicola, che Pleasantville colpisce l’occhio dello spettatore ormai disabituato. Ed è appunto con l’uniformità cromatica della sitcom anni ’50 che si introduce il tema centrale dell’opera: l’importanza della diversità.
Tutti sono limitati, ancorati al proprio ruolo, in questo caso peraltro proprio perché legati al plot del film. Nessuno sbaglia mai in virtù del copione stampato in testa, il pericolo non esiste poiché tutto è finto e controllato: il fuoco non brucia, la squadra di basket centra ogni canestro, i padri di famiglia tornano a casa trovando moglie accogliente e cena pronta. Sempre. Ora però ci sono due fratelli provenienti da una società completamente diversa, e che si scoprono, sebbene non intenzionalmente, ad alterarne lo status quo.
Jennifer, più ribelle di David, straccia il ruolo della sua Mary Sue Parker e fa conoscere il sesso al ragazzo che la corteggia. Nel grigiore, ecco che una rosa si colora di rosso, rosso vero! Una donna in seguito si approccia all’autoerotismo, l’amor proprio che abbatte un tabù vecchio di secoli e che una volta caduto fa prendere fuoco a un albero, fuoco vero, che brucia. Principia una reazione a catena. I cittadini vedono l’incendio, i pompieri comprendono la ragione del proprio mestiere, i giovani si confidano tra loro, la sessualità viene (ri)scoperta, qualcosa di diverso colora il grigiore di Pleasantville.
Se la spinta iniziale è quindi fornita da un istinto carnale e vitale per l’uomo, è poi affidato all’arte e alla cultura il compito di diffondere la diversità, o meglio la sua bellezza capace di infrangere i muri limitanti che forniscono un solo punto di vista.
Vi è chi capisce e accoglie in fretta questo nuovo modo di vedere le cose, chi invece ne è sopraffatto e ne ha paura, non riuscendo a sradicarsi dalle imposizioni delle precedenti abitudini, e si nasconde. Chi, infine, guarda il tutto con sospetto, portando l’idea che i vecchi valori vadano preservati e protetti, che sia necessario fare qualcosa per frenare questo virus. Si giunge alla separazione, alla violenza del dividere il piacevoledallo spiacevole, all’abbattimento fisico di quei nuovi segni di ribellione che, poiché simboli, parlano nel profondo senza aver bisogno di parole: colpiscono. 
Nel mondo di Pleasantville, dove tutto era perfetto, prima non c’era la violenza, ma ora sì, e i benpensanti bruciano i libri, un tempo bianchi e innocui, ed emanano leggi repressive per fare ordine.
Un contrasto che è sempre il solito, il nostro, quello del mondo che c’è qui fuori. Uno scontro che lì, in Pleasantville, viene ovviamente risolto, con la forza del dialogo, della logica, del coraggio di sconfigge la paura non del diverso in sé, ma di se stessi nell’accettare il diverso, persino quando è bello.
Perché il diverso va oltre il piacevole, e comprende sì il bello, ma anche il triste, abbraccia il brivido, l’euforia, la soddisfazione, e anche, certo, lo spiacevole. E non è un difetto questo, ma un’opportunità; perché in un mondo senza colori, alla fin fine, che senso può mai avere vivere?

di Davide Storti

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